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Red Bull K3, 400 stelle sparate in cielo

di - 04/08/2014

Di: Marco Melloni
Foto di: Daniele Molineris, Stef Candé, Damiano Levati / Red Bull Content Pool

Questo sabato 2 agosto siamo stati alla prima edizione della Red Bull K3, la prima sky running race di triplo chilometro verticale. Un grande successo, con atleti provenienti da tutto il mondo. 400 partecipanti, a sfidarsi l’un l’altro e contro se stessi, in quella che potremmo definire la corsa più tosta per raggiungere una vetta da 3538 m.
Hanno vinto Marco Moletto – Team La Sportiva con un tempo di 2.06.30 h e Laura Orgué Vila – Team Salomon in 2.22 h.

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La speranza di correrla si era spenta un paio di mesi fa quando dopo la Vibram Trincea Trail un’infiammazione mi aveva costretto a sospendere gli allenamenti, ma dato che sarei partito per le ferie solo la settimana seguente ero curioso se non altro di andare a respirare il clima che ci sarebbe stato a Susa quel giorno. La gara si preannunciava davvero originale nel format e massacrante nella sostanza, insomma in classico stile Red Bull.
Triplo chilometro verticale, da 508 m di Susa ai 3.538 m della cima del Rocciamelone, più una partenza lanciata di 2 Km su asfalto per diluire i partecipanti e dare il via alla gara vera e propria su sterrato. Ma non finiva qui perché due cancelli, posti il primo a 1.670 m e il secondo a 2.850 m, consentivano il passaggio dei primi 300 e poi dei primi 80, verso l’ultimo tratto di corsa.
Il venerdì sera l’ennesimo biblico temporale teneva l’organizzazione con il fiato sospeso, si sarebbe corso il mattino dopo? Nico Valsesia (l’ideatore dell’evento) e la sua squadra non si davano per vinti, avrebbero lavorato ancora tutta la notte per sistemare gli ultimi dettagli.
Nel frattempo in paese, mentre ci salutavamo dandoci appuntamento al mattino successivo, mi arrivava la proposta di correre con una GoPro al petto per dare qualche immagine in più alla produzione video.
“Perché no, proviamoci”!

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Sabato, ore 9,30, le ragazze sono partite da mezz’ora, lo starter dà le ultime indicazioni, siamo sotto l’arco Red Bull pronti a partire, mancano 3 minuti. Qualcuno chiede a Giovanni Storti (del trio Aldo, Giovanni e Giacomo n.d.r.) dove sia finito Aldo Rock. “Si è accorto di non aver messo le calze, è andato a prenderle”. Lo dice a quella sua maniera, muovendo i baffi sopra il sorriso sornione, partono le risate.
Pronti… via, due passi e perdo la borraccia, merda, impossibile riprenderla sono nelle prime file, se mi fermassi mi travolgerebbero.
La partenza non ha senso, abbiamo un ritmo come se dovessimo fare i 400 m in pista invece dobbiamo coprire 2 Km prima di iniziare la gara vera e propria, ma i pro tirano il gruppo e la mandria non può far altro che seguire.
Attraversiamo le strade del paese incoraggiati dagli spettatori, poi, arrivati a Monpantero inizia il sentiero, ci siamo.

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Il tracciato fin da subito non dà tregua, sarà così praticamente fino alla fine. Sono abbastanza indietro, l’inizio mi ha sfiancato, cerco di riportare le pulsazioni ad un livello consono e di darmi un ritmo sopportabile, mi preoccupa non avere da bere.
La prima parte è nel bosco: è caldo, umidissimo, il terreno bagnato, con pietre scivolose, terra, un po’ d’erba, ma è un sentiero per lo meno, più tardi non ci sarà nemmeno quello.
Saliamo, i sorpassi sono pochi, il ritmo nelle retrovie e abbastanza lento. Dopo circa 400 m di dislivello un atleta del team Vibram (o così mi pare) torna indietro, smadonna, “non è giornata” dice.
Più in alto il bosco si dirada, c’è un’atmosfera da fiaba, la montagna qui è bellissima, una leggera nebbia avvolge tutto e i vestiti colorati dei runner spiccano, fradici per il sudore e la leggera pioggia. Ci investe il rumore dell’elicottero della produzione video, lo riprendo a mia volta con la GoPro. Daniele Molineris è legato fuori dal portellone, la reflex al collo, “sono stato lì lì per vomitare dopo tutto quel tempo in volo”, mi dirà più tardi.
Sento delle voci, voci di spettatori. Incrocio una persona in attesa, dice che il primo cancello è qui vicino, un centinaio di metri, e infatti dopo poco lo vedo e lo supero.
Sono dentro nei 300, circa al 260, non sanno dirmelo con precisione, ho il pettorale ma non il chip, io non sono in gara.

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Mi scolo una Red Bull, un bicchiere d’acqua, due manate di nocciole. Filmo due runner che passano il gate, faccio quattro chiacchiere con i ragazzi dell’organizzazione che mi chiedono se proseguo. Non ho un programma, il clima di festa è contagioso, non credevo di essere ancora in gara.
“Ok proseguo dai, faccio ancora un 200 m, se voi salite in macchina ci vediamo all’inizio del prato”.
E così riparto, qui c’è l’unico tratto di bosco quasi in piano, trotterello veloce e raggiungo Giovanni del trio. Siamo rinfrancati dalla sosta, dopo questo pascolo inizia il famoso prato.
Passiamo sotto un arco gonfiabile Dynafit, c’è un sacco di gente ad accoglierci, per terra è pieno di cacca di vacca e Giovanni dice: “che accoglienza di merda”. Non ha perso lo spirito.
Ora il sentiero non c’è più, i tracciatori hanno tirato una linea retta di bandierine fino al secondo cancello.
Giovanni e il suo amico iniziano a staccarmi, loro come quasi tutti hanno i bastoni, un buon aiuto su un terreno così inclinato, pagherò cara la scelta di non averli portati.
D’un tratto le nuvole si aprono mostrandoci il pendio che dovremo percorrere punteggiato di concorrenti che arrancano, poi il sipario si richiude, come a suggerire di muovere un piede dopo l’altro e non pensarci.

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Continuo ad avanzare, sono da solo. Vedo due runner 100 m davanti a me e altri due 100 m dietro e una bandiera su quello che sembra un cambio di pendio.
Il terreno è sempre più inclinato, si fa fatica a procedere, l’unica è seguire le bandierine blu di segnalazione piantate ogni 3 m, provvidenziali quando cala la nebbia.
Sono scoraggiato adesso, guardo l’altimetro e non riesco a capire, non ricordo le indicazioni, so solo che sono a 2.300 m e non vedo il gate, ricordo, sbagliando, che era sulla quota dei 2000 m. Mi fermo, tiro fuori un sacchetto di mandorle, il secondo e ultimo gel l’ho già scolato. Perché non ho preso una lattina al punto di sosta?

La maglia fradicia mi ghiaccia la pancia, mi vengono i crampi ai quadricipiti, non riesco a proseguire, sono letteralmente inchiodato al suolo. Tiro fuori il telefono ma non ha segnale. Prendo a gattonare per il prato, tirandomi verso l’alto sui ciuffi d’erba, perdo la traccia finendo su una vena di ardesia, scaglie taglienti quasi da arrampicare che mi graffiano le tibie.
Finalmente incrocio due del soccorso alpino con le loro giacche rosse e gialle, mi chiedono se ho intenzione di continuare, mancano 400 m di dislivello al cancello.
Proseguo, scendere da questo prato sarebbe una follia. Come a confermarlo scendono di corsa due runner francesi, uno scivola rotolando per qualche metro sull’erba fradicia, bestemmia, si è fatto un po’ male.

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Negli ultimi 300 m il terreno scollina, si vedono le bandiere del rifugio, qui incrociamo il sentiero dei trekker, è pieno di gente in salita e discesa. Ingaggio una gara all’ultimo sangue con un altro zombie, vincerà lui di qualche metro.
E’ una grande soddisfazione essere arrivato al rifugio dove è posto il secondo cancello, chiaramente sono eliminato ma non avrei mai pensato di poter fare 2.340 m di dislivello positivo.
Saluto Nico e mi complimento con lui e l’organizzazione, forse un po’ più di assistenza nella parte alta e dei ristori più riforniti avrebbero reso più piacevole la gara agli amatori ma nel complesso so che hanno fatto uno sforzo sovrumano per tracciare il percorso e organizzare il tutto, i dettagli si farà in fretta a migliorarli.
Non resta che scendere circa 1000 m di sentiero, poi una navetta ci riporterà in paese.

Lattina

Sono davvero contento di aver partecipato alla Red Bull K3, correrlo è stato l’unico modo per farmi un’idea reale di cosa significhi affrontare una gara del genere.
3.030 m di dislivello su uno sviluppo di 10 Km significa correre su un pendio maledettamente inclinato per tutto il percorso, con un terreno che non è nemmeno una pista e condizioni atmosferiche che vanno dalla pianura all’alta montagna.
Ho visto sul sentiero della discesa atleti di varie nazionalità scendere correndo come dopo una corsa di mezz’ora, ridendo e parlando nel frattempo del più e del meno.
Ho impiegato 3,45 h circa per arrivare a 2.850 m quando Marco Moletto ha impiegato 2,06 per raggiungere i 3.538 m della cima.
Per fare una cosa del genere bisogna essere dannatamente determinati e non posso non fare confronti con gli atteggiamenti di determinati “campioni”, strapagati e idolatrati per rotolarsi doloranti al primo fasullo contatto fisico.
Certo, i tanti che sono arrivati in cima si allenano quotidianamente e fanno gare per tutta la stagione, ma per correre in montagna non si fa affidamento sul talento, solo su una buona predisposizione fisica. Il resto è forza di volontà.
I miei complimenti allora a questi ragazzi e alla straordinaria voglia di infrangere i limiti della performance fisica, quasi per la sola soddisfazione di farlo; e complimenti a chi organizza eventi anche per chi ama praticare sport “di nicchia”.
Ho la speranza che sempre più gente, nei limiti delle proprie capacità e possibilità, si metta alla prova in prima persona in una qualsiasi attività fisica e si renda conto che i veri valori di qualsiasi sport possono essere unicamente legati alla passione e alla forza di volontà e all’essere più che all’apparire.

Diplomato in Arti Grafiche, Laureato in Architettura con specializzazione in Design al Politecnico di Milano, un Master in Digital Marketing. Giornalista dal 2005 è direttore di 4Actionmedia dal 2015. Grande appassionato di sport e attività Outdoor, ha all'attivo alcune discese di sci ripido (50°) sul Monte Bianco e Monte Rosa, mezze maratone, alcune vie di alpinismo sulle alpi e surf in Indonesia.