È un modo di guidare la bici così diffuso che qualcuno ha iniziato a chiamarlo “alla Evenepoel”. Si riferisce a quella abitudine dei corridori odierni a chiudere le braccia sul manubrio, orientando i comandi cambio in modo che quasi si guardino l’un l’altro, montati su curve manubrio con ampiezza sempre più contenuta. Proprio il fenomeno belga, in questo senso, è il caso esemplare in questo senso. Ma non certo l’unico.
Le mani in presa bassa, inoltre, oggi sembra non metterle più nessuno tra i pro. Insomma, si tratta di posizioni in sella impensabili fino a qualche anno fa. Ma ne siamo proprio sicuri?
La parola al tecnico
Basta guardare le corse di una decina di anni fa per capire che l’assetto di guida stretto e “chiuso” non è una novità tra i corridori. Ne è convinto Romolo Stanco, deus ex-machina di T-Red, che oltre a progettare biciclette è anche esperto di biomeccanica: «Per fare un nome potrei dirti Giairo Ermeti, che nel 2013 guidava più o meno in quella posizione. Qualche stagione dopo anche corridori come Elia Viviani o Alessandro De Marchi hanno adottato quell’assetto, lo stesso che qualche tempo dopo uno del calibro di Evenepoel ha estremizzato ancora e per questo reso famoso».
Estremi non solo di guida
Con Romolo Stanco, in questa occasione, ci concentriamo sulla zona di guida, ma in fondo, parlando di assetti estremi che adottano oggi i corridori potremmo anche spostare il focus sugli altri due punti di contatto tra fisico e bicicletta: «Potremo parlare di sella – continua Stanco -. E in questo caso allora potremo parlare della stazione sempre più avanzata che hanno i prof e del fatto che in molti montano il reggisella con la testa invertita, appunto per essere più avanzati. Ma potremmo parlare anche di pedivelle, perché dopo anni di leve sempre più lunghe, ora si va verso l’estremo opposto, verso pedivelle sempre più corte. E che oggi si parli molto di zona di guida, che oggi si parli di manubri e comandi cambiati tanto a quelli di qualche anno fa, in fondo questo è dovuto principalmente al fatto che questa è la parte di contatto tra corpo e mezzo meccanico più evidente, quella che si fa notare di più e per prima rispetto alle altre due rappresentate da sella e pedivelle».
Sensibilità da professionisti
Chi della bicicletta non fa un utilizzo agonistico e professionale potrebbe reputare bizzarri certi assetti assunti oggi dai pro; ancora peggio fa chi quelle posizioni sul manubrio prova a scimmiottarle, quando il suo livello di pratica e il suo allenamento sono di grado decisamente inferiore a quello di chi con la bici corre per professione: «Ciò che non capiscono tanti – prosegue Stanco – è che se questi atleti fanno determinate scelte è perché hanno una sensibilità sul mezzo che è la stessa che potrebbe avere un Bagnaia rispetto a una MotoGP o un Djokovic rispetto a una racchetta».
Aggiungiamo che in uno sport di durata come è il ciclismo determinate esigenze biomeccaniche assumono un ruolo ancora maggiore rispetto ad altre discipline.
Alla ricerca di comfort e performance
«L’obiettivo di un professionista è trovare una posizione in sella che non può non essere confortevole – spiega Romolo -, ma che al tempo stesso deve essere la migliore in termini di prestazione. Per ottenere questo risultato è necessario far corrispondere tre valori, la potenza meccanica espressa sul mezzo, l’efficienza aerodinamica prodotta e infine unire tutto questo alle specifiche caratteristiche antropometriche dell’atleta e al feeling che questi può avere. Questo feeling, appunto, a volte non corrisponde a qualcosa di misurabile. Prendiamo per esempio il caso di un velocista, di quelli che hanno assetti decisamente lontani rispetto a quelli che sono i canoni tradizionali. Prendiamo ad esempio il caso di Caleb Ewan; tanti dicono che ha quella strana posizione in sella perché ha un fisico particolare, ma in realtà sono sia il fisico sia il suo personale feeling che lo portano a fare determinate scelte di assetto».
Obbligati alla serialità
Per essere sinceri, l’attenzione per la sistemazione fine e meticolosa del componente ha sempre caratterizzato il ciclismo professionistico o in genere quello di altissimo livello. Viene allora da chiedersi come mai è soprattutto negli ultimi anni che vediamo in gruppo atleti con posizioni in sella che, per sintetizzare, abbiamo definito estreme o, se preferite, quasi “azzardate”: «Il fatto è che nel ciclismo ci troviamo di fronte all’unico caso dello sport professionistico in cui il mezzo utilizzato – e per mezzo in questo caso mi riferisco essenzialmente al telaio – è di serie, ovvero non è prodotto in base alle specifiche caratteristiche antropometriche dell’atleta. Se questo accade non è tanto perché i costruttori non possano tecnicamente realizzare telai ad hoc, ma fondamentalmente è perché, a causa dei suoi rigidi regolamenti, l’UCI non vuole che accada questo. La conseguenza è che i vari atleti – e ripeto che per quel che ne io potrei citare Ermeti, Viviani e De Marchi – cercano di rendere performante rispetto alle loro caratteristiche e al loro feeling un prodotto che è essenzialmente di serie. Per fare questo, ovviamente, l’unica strada possibile è quella della personalizzazione attraverso i componenti».
Anche i materiali contano
Non è solo la serialità della produzione industriale a condurre a scelte biomeccaniche peculiari come quelle che vediamo in campo oggi; il discorso spesso si interseca con l’evoluzione dei materiali e delle tecniche produttive per realizzare telai e componenti. In questo senso il carbonio, o meglio il materiale composito a base di carbonio, recita un ruolo di primo attore nella produzione ciclistica attuale: «Ma il carbonio ha caratteristiche meccaniche che possono essere opposte, in base a quale senso consideri della tubazione: può essere estremamente rigido in una direzione, ma può assolutamente non esserlo nell’altra». E questo in fondo è l’aspetto che ha portato a radicare il gradimento dei pro rider verso telai sempre più piccoli, in quanto più premianti dal punto di vista della resistenza a flessione: «I telai supercompatti dei pro hanno quasi tutti un tubo sterzo molto compatto, da 10, massimo 11 centimetri. In questa situazione probabilmente non arriverai mai ad afferrare o a mantenere a lungo la presa nella posizione bassa, come invece si faceva fino a qualche anno fa».
Pantani e Armstrong, uno spartiacque
Non serve andare troppo indietro nel tempo per invertire questa tendenza, non serve andare agli anni di Moser e Saronni o all’era dei telai in acciaio costruiti su misura: «Diciamo che fino agli anni di Pantani e anche un po’ oltre, direi fino all’era Armstrong, tanti corridori utilizzavano ancora telai fatti su misura o, quantomeno, si usava molto la presa bassa perché gli sterzi erano più alti e, a volte, abbinati anche a spessori distanziali. Ora non più, ora alle Case non conviene più improntare uno standard di produzione su misura per le bici destinate ai prof, perché in questo modo non riuscirebbero mai a vendere questi telai sul mercato di massa».
Quanto conta l’aerodinamica
Dai telai con volumi sempre più piccoli e sterzi sempre più compatti ai manubri piccolissimi il passo è breve. Anche in questo caso la forma scelta asseconda una funzione, che è quella di andare oltre il limite del possibile a livello di prestazione, ma farlo consapevoli di alcuni limiti inarrivabili legati ai componenti – spesso di serie – di cui si dispone.
Senza poi dimenticare che, oltre a quello funzionale, abbiamo detto esserci anche l’aspetto aerodinamico come fattore essenziale: «I corridori oggi si trovano di fronte a una opportunità che è quella di ottimizzare i tre elementi di performance di cui dicevo prima, provando soluzioni differenti attraverso la componentistica, con un ruolo sempre maggiore giocato dal fattore aerodinamico. Nel quadro tecnico a loro disponibile i corridori hanno capito che per minimizzare la superficie esposta all’aria e riuscire allo stesso tempo a dare al petto la stessa capienza respiratoria la posizione migliore è quella con le braccia alte e chiuse, non più con le mani basse sul manubrio. Per fare questo il supporto migliore è un manubrio che sia il più stretto possibile, e magari anche comandi cambio che siano montati in modo convergente gli uni con gli altri, in modo – tra l’altro – da fungere anche un po’ da appendici o da simulare la posizione “crono”, che nelle gare su strada appunto l’UCI vieta. Tra l’altro, la moderna generazione di comandi cambio con il pompante idraulico facilita questa funzione, creando un ulteriore appoggio a beneficio dei palmi».
La scuola Pogačar
Tadei Pogačar in questo senso ha fatto scuola, lui addirittura utilizza un manubrio che è non solo stretto, ma ha anche le parti basse che producono una certa angolazione rispetto alla verticale, esattamente come i manubri flare che si usano nel Gravel. In realtà, i componenti gravel in questo caso non c’entrano nulla, si tratta semplicemente delle aziende della componentistica che hanno iniziato a investire su questo tipo di componenti che appunto assecondano questa nuova esigenza biomeccanica dei prof: «Con i manubri stretti minimizzi l’impatto che tronco e spalle producono nell’aria, hai una diminuzione significativa del drag. È anche questo uno dei motivi per cui anche noi stiamo lavorando parecchio sui manubri. Noi abbiamo fatto test in galleria sulle bici da pista. Grazie a questi abbiamo riscontrato che 29 centimetri diventa il valore ottimale in termini aerodinamici».
Ventinove centimetri, ovvero un valore al di sotto dei 35 cm di larghezza minima che dal 2023 l’UCI impone sui manubri da strada (misurati “esterno/esterno”, sulla parte bassa). «Sono certo – continua Stanco – che nel giro di due anni, se non cambieranno ancora i regolamenti, tutti i corridori arriveranno ad usare manubri larghi al massimo 36, 38 centimetri, con due “corna” con un flare simile a quello delle curve gravel».
Staremo a vedere.
Più stretto uguale più lungo
La contrazione in larghezza del manubrio ha ulteriori ripercussioni in termini biomeccanici e di assetto. Sempre a riguardo dei manubri da pista e delle sperimentazioni condotte da T-Red Stanco ci spiega: «un manubrio da pista da 29 centimetri è un manubrio ottimale, a patto però che tu allunghi la posizione di almeno 4 centimetri, altrimenti non daresti al petto la stessa capienza respiratoria». Le velocità elevatissime e le condizioni estreme che caratterizzano la disciplina dell’“anello” fanno sì che qui questi cambiamenti e innovazioni siano più evidenti, ma questa nuova scuola – o se preferite questa nuova tendenza – sta facendo breccia anche nelle bici da strada: «Cervelò e Bianchi – spiega Stanco – sono a mio avviso due marchi che stanno assecondando questo trend, con dei set di guida con attacco la cui inclinazione è non più negativa come succedeva fino a ieri, ma positiva, ed ha uno sviluppo anche particolarmente lungo. Questo appunto ti consente di simulare una posizione da crono e farlo in modo sostenibile e redditizio, dal punto di vista della biomeccanica».
Comandi che contano
Nella sistemazione biomeccanica della “consolle di guida” del corridore non possiamo dimenticare l’elemento rappresentato dai comandi cambio, questi a la loro elevata valenza ergonomica e di appoggio. La realtà delle corse ci pone di fronte a scelte dei corridori che orientano i comandi in posizione evidentemente diversa rispetto a quella per cui sono stati ergonomicamente progettati, ovvero che si guardano l’un l’altro e – come abbiamo visto – danno in questo modo al corridore la possibilità di trovare una posizione aerodinamicamente premiante. Certo è che l’argomento comandi cambio dimostra ancora una volta che nel mondo del ciclismo continua a non esserci troppa comunicazione tra le aziende costruttrici di componenti che sono sì destinati ad essere montati assieme, ma che spesso hanno caratteristiche ergonomiche a sé stanti, poco compatibili le une con le altre sotto l’aspetto dell’ergonomia. È l’annosa questione dell’integrazione di sistema che solo in rari casi si riesce a raggiungere, e che si perde nei meandri di una filiera della produzione ciclistica probabilmente troppo ricca, con attori che spesso non parlano tra loro e che codifica tanti, troppi standard.
Ma su questo, magari, torneremo in futuro…