Testo di: Marco Bucalossi | @marc_buca
Photo: Mitch Van Deurse @mitchvandeurse | Lizy Baldwin @lizybaldwin | @ Marco Bucalossi @marc_buca
Eravamo stanziati a Uluwatu, Bali, già da quasi un mese. Ormai avevamo una vera e propria routine: surf al mattino prima che la maggior parte della folla entrasse in acqua, pranzo/colazione in uno dei tipici “avo-toast” cafè di Bali, pennichella, pomeriggio in un altro cafè o in un coworking per guadagnarsi la pagnotta davanti ai nostri laptop fino a tarda sera, quando andavamo a cena per incontrare amici e a volte finiva lì, altre volte finiva in festa in uno dei pochi bar della zona.
All’inizio ce la prendevamo alla leggera, essendo più focalizzati nel surfare il più possibile le onde di Uluwatu, che verissimo sono ultra-affollate, però che onde…che onde. Dopo le prime due settimane iniziavamo a non avere più la stessa foga e le distrazioni a Bali sono tante, veramente tante, soprattutto quando inizi a conoscere gente in giro e vieni invitato a destra a manca a diversi eventi, feste, e attività sociali. Eravamo al punto in cui ogni singola sera eravamo a fare festa da qualche parte, intrappolati in un vortice di Bintag, ragazze, fughe in motorino, sbornie, e surf (perché dai, comunque eravamo lì per quello). Lo chiamavamo il “Vortex”. E dovevamo fuggirne, volevamo surfare per davvero, senza 100 persone in acqua, senza birre e feste a distrarci, volevamo la giungla e basta, niente avo-toast.
La “crew” era composta solo da tre persone. Alejandro, ragazzo spagnolo, surfista eccezionale avendo fatto competizioni fin da ragazzino e ora dedito a sperimentare tavole asimmetriche e twin fins. Ma non pensate chissacché, pure con tavole alternative è in grado di distruggere un lip, data anche la sua stazza. Ho conosciuto Alejandro in Portogallo, vivendo nello stesso paesino nei pressi di Cascais, e molto rapidamente siamo diventati veri e propri surf buddies. Seppi, amico di infanzia di Alejandro, conosciuto a Bali pochi giorni prima, anche lui spagnolo e che attualmente sta tentando di trasferii definitivamente a Bali per vivere il sogno surfistico indonesiano a pieno. Non un pro come Alejandro, ma compensa con audacia e talento nel conoscere nuove fanciulle sull’isola degli Dei, probabilmente il casanova per eccellenza. Pure all’aeroporto di Depansar non ha esitato a chiedere il numero di telefono a un gruppo di bellissime ragazze locali che stavano viaggiando a Jakarta per una competizione di bellezza. E infine il sottoscritto, il tipico ragazzo italiano scappato dalla penisola per trovare onde migliori di quelle del mare nostrum. Non mi piace parlare di me quindi non aggiungo altro, ma essendo il più giovane del trio ero praticamente trattato costantemente come il grom della situazione.
Dopo ricerche sfrenate durante i nostri orari lavorativi, analisi delle previsioni a lungo termine, calcolo di un budget medio ridotto (dato che era stato tutto speso il mese prima) e qualche tiro di dadi, scegliamo finalmente la nostra meta.
Ujung Bocour era l’onda che volevamo surfare. Per arrivare a destinazione dovevamo prendere due aerei, Bali-Jakarta e Jakarta-Lampung, per giungere a Sumatra e dopodiché salire su una macchina organizzata dalla nostra accomodation per un road trip di ben 7 ore fino a Krui, il villaggio più vicino allo spot.
Un intero giorno di viaggio non è poi così male, l’unico problema è che partivamo da Bali dove avevamo passato le ultime settimane, e ovviamente sapendo che avremmo passato i prossimi giorni nella giungla desolata surfando, dormendo e mangiando e niente di più, la nostra ultima notte a Bali è stata abbastanza intensa. Aeroporti, aerei, e taxi non sono i luoghi ideali per smaltire una sbornia, ma il fascino di viaggiare attraverso diverse mete del Sud-Est asiatico era un’ottima distrazione.
I due voli non erano stati così male, brevi ed efficienti, e le pause in aeroporto ti permettevano di completare faccende di lavoro o semplicemente di smaltire l’alcool della sera prima. Tutt’altra storia la tratta in macchina. Incontriamo il nostro driver fuori dall’aeroporto di Lampung, ci facciamo dei noodle espressi al volo, carichiamo le tavole sul tetto della macchina, e via. L’hype è alle stelle, musica a palla, i locali che ci salutano dalla strada, non siamo i primi surfisti che vedono, ma siamo comunque abbastanza diversi da essere un evento per la loro giornata, siamo come alieni in visita da Marte. Alejandro grida “We are gods here!”.
Poi passano un paio d’ore, la stanchezza inizia farsi sentire, si fa buio, ci addormentiamo a turno. E poi iniziano i problemi. Il driver pare non sentirsi in forma, ogni 30 min si ferma lungo la strada per andare in bagno, ci dice che ha problemi di stomaco dal giorno prima. Diarrea e vomito. Ottimo. Gli offriamo dei medicinali, ma rifiuta, vuole bere solo acqua e mangiare pane con cioccolato. Proviamo a spiegargli che il cioccolato non è proprio il massimo per le sue condizioni, ma che gli frega di cosa dicono gli stranieri dell’ovest. La strada da Lampung a Krui non ha molta illuminazione, è a linea singola, attraversa villaggi, giungla, e risaie, non c’è molto traffico, ma ci sono molte curve e sezioni strette.
Ad una certa Seppi nota che il driver si stava letteralmente addormentando, probabilmente esausto per via delle sue condizioni, chiudendo gli occhi e accasciandosi sul volante. Seppi getta un grido, Alejadro prende il volante al volo, io mi sveglio di soprassalto “che cazzo succede?!”. Seppi fa un cazziatone al driver che ora è più vigile che mai ma figurati se ci fidiamo, e a turni uno di noi rimane sveglia per monitorare il guidatore locale per le restanti 4 ore di viaggio. In tutto ciò si aggiungeva il fatto che una serie di battute ha fatto sì che Seppi, per noia, si mettesse a scrivere a una ragazza che avevamo conosciuto la sera precedente e che mi piaceva molto. Per via del suo intervento, le mie possibilità di rincontrarla una volta tornati a Bali si stavano riducendo drasticamente, ed ero infuriato, per tutto il viaggio non ho rivolto la parola al mio amico. La peggiore tratta in macchina della mia vita.
Arriviamo alla nostra accomodation nel mezzo della notte. Ad accoglierci c’è Jerry, il proprietario della guest house che avevamo trovato tramite raccomandazioni di gente incontrata a Bali. Una camera tripla ben più che spaziosa, con vista sul point di Ujung, perfetto per monitorare lo spot e essere in grado di stare là fuori nei migliori momenti della giornata. Jerry è un americano che ha mollato tutto e ha iniziato una nuova vita a Sumatra, sposato una donna locale, figlie, guest house, ristorante, il pacchetto completo. Un vero e proprio pioniere della zona Sud di Sumatra. Per qualsiasi consiglio riguardo gli spot della zona, lui è l’uomo a cui chiedere, e non sbagliava mai. Era il nostro guru, per onde e per cibo. Sapeva bene dove potevamo mangiare senza prenderci malanni e tenendo il portafoglio più pieno che vuoto.
Il mattino dopo ci svegliamo tardi, stanchi, e con calma. Prima cosa da fare, affacciarsi al balcone per vedere le onde. E finalmente capiamo perché abbiamo fatto tutto questo viaggio infernale. Onde sinistre di 4-6 piedi che srotolano perfettamente lungo il reef della costa. 3-4 persone fuori al massimo che si alternano in modo pacifico. E’ grosso, è potente, è esattamente…è quello che volevamo. Un’onda perfetta nel mezzo del nulla, lontano dai bar e dalla folla di pro di Bali, finalmente possiamo respirare.
Ci mangiamo un burrito preparato dalla moglie di Jerry, una bomba calorica che ci abitueremo a mangiare ogni mattina per i prossimi 10 giorni, necessario per stare in acqua per le successive 3-4 ore. Seppi è già stato qui qualche mese fa, quindi ci guida verso il punto di entrata dello spot. Una lunga camminata lungo il reef per raggiungere il picco. Il timing per saltare nella zona più profonda è fondamentale, e ovviamente noi ancora mezzi addormentati e appesantiti dal burrito sbagliamo tutto.
Niente di grave, ma qualche taglio sui piedi e qualche spina di riccio di mare è il prezzo da pagare. Più di una volta ci siamo ritrovati alla sera seduti sul pavimento della nostra camera a disinfettare e pulire le ferite, a volte anche a chiudere i tagli più gravi con colla attack. Successivamente abbiamo scoperto che il canale per uscire era perfettamente utilizzabile anche per l’entrata, totalmente remabile senza bisogno di distruggersi sul reef. Ci sono voluti alcuni giorni per individuarlo correttamente, dato che bastava prendere l’onda sbagliata e ci si ritrovava a camminare su coralli taglienti.
Una volta sul picco l’eccitazione è al massimo. Siamo praticamente da soli sul picco principale, gridiamo, ridiamo, ci chiamiamo a vicenda nelle onde. E’ un parco giochi, sinistre lunghe e potenti, che danno spazio per diverse manovre consecutivamente. Per il mio livello intermedio è un’onda perfetta per perfezionare la tecnica e riprovare e riprovare manovre, per uno come Alejadro è invece un canva dove disegnare linee uniche e far esplodere tutta la sua forza sul lip. Surfiamo per qualche ora finché non entrano altre 5-6 persone.
Ma va bene così perché siamo esausti. Il fatto di surfare onde così lunghe vuol dire che anche la remata di ritorno al picco è altrettanto lunga e stancante. Braccia, spalle e gambe sono a pezzi. Torniamo alla nostra stanza, ci abbuffiamo su dei biscotti avanzati dal giorno prima e spariamo musica funky al massimo. Una breve tratta in scooter ci porta a un mini warung (ristoranti locali, solitamente gestiti da famiglie nelle loro stesse abitazioni) dove ci gustiamo una dose di Mie Goreng ultra-piccante (noodles con verdure e pollo). Dopodiché io e Alejandro ci facciamo un pisolino mentre cerchiamo di riguardarci una puntata di Game of Thrones, mentre Seppi si mette completamente nudo sul letto per il caldo mentre risponde a email del suo capo, il quale pensa che stia lavorando da remoto a Madrid, inconsapevole che sta surfando le onde migliori del mondo dall’altra parte del mondo invece di andare in ufficio.
Sono le 4 per pomeriggio e finalmente il sole non è così caldo e forte, è il momento perfetto per una breve sunset session prima di cena. Stessa magia della mattina, con qualche persona locale in più in acqua. Uno di loro ci spiega come mai è così poco affollato, la direzione dello swell non è ottimale e molti pensano che sia già oversize. Ci chiediamo come l’onda possa essere se quello che vedevamo non era “ottimale”…l’hype è ancora più alto per i prossimi giorni. Usciamo dall’acqua quasi con il buio, doccia fredda veloce, un burger da Jerry, una partita a biliardo e si va a nanna presto.
Qualche australiano resta al warung per bere qualche birra e chiacchierare, ma non siamo qui per socializzare, abbiamo già dato più che abbastanza a Bali. Il mattino dopo lo swell aumenta notevolmente e dovremo guidare una mezzora in moto per raggiungere altri spot in una baia più vicino al centro di Krui. Dicono ci saranno tubi importanti…Alejandro freme, mentre la mia sensazione di eccitazione si trasforma lentamente in ansia per le sfide che ci aspettano il giorno successivo.
The Peak. Uno slab che rompe su una lastra di reef non troppo distante dalla spiaggia tropicale di Krui. Non troppo diverso dagli slab irlandesi per perfezione, unica differenza è che qui siamo ai tropici, quindi surfi praticamente nudo, nessuno strato protettivo sulla pelle nel caso si vada verso il fondo. E su quest’onda è molto facile arrivare al fondo. Ci corazziamo di top in neoprene e elmetti da surf, la sicurezza prima di tutto, che comunque usavamo più in moto che a surfare. L’onda è principalmente una destra, a volte anche la sinistra può aprire abbastanza da lasciare un varco, ma il tubo che tutti cercano è la destra. Essendo goofy, significa che per riuscire a surfare l’onda correttamente avrei dovuto fare backdoor (prendere l’onda dietro al picco), infilarmi sotto il lip e pregare di uscire dall’altro lato. Ovviamente non avevo le capacità tecniche per fare una manovra del genere e l’intera session è stata un susseguirsi di wipeout (cadute/fallimenti) e brevi surfate dovute al “mistiming” nel take off.
Tutt’altra storia per Seppi e Alejandro, che senza timori si buttavano sui set più grossi, rail grab, e giù a cannone. A volte ne uscivano fuori esultando come dei pazzi, altre volte venivano macinati per poi riaffiorare nella spuma e mostrare qualche nuovo taglio su gomiti e ginocchia. La sessione a The Peak mi ha aperto gli occhi sul surfare in Indonesia. Le onde sono perfette e se becchi il giorno giusto puoi veramente avere l’onda della tua vita, ma devi essere disposto a pagare il prezzo e avere “i palloni” di rischiare per qualche taglio o, peggio, per ottenere quell’onda. Una volta che la marea si fa troppo bassa, usciamo dall’acqua, diamo un occhio a un’altra onda vicino, Krui Left, l’onda gemella di Bingin, ovvero una sinistra perfetta, sezione tubante più sezione per turns, ma come la gemella più famosa, ultra affollata, essendo anche l’onda più facile nella zona. Più scocciati dalla folla che affascinati dall’onda risaliamo in sella ai nostri scooter e riattraversiamo villaggi e risaie per tornare a Ujung, pur sapendo che sarebbe stato troppo grosso, ma male che andava ci saremmo rintanati nella nostra camera con Games of Thrones e biscotti, dopo aver ripulito e riparato i piedi.
Jerry ci dà una soffiata e ci informa che Way Jambu, conosciuta anche come The Sumatran Pipeline, potrebbe essere “on-fire”. Scettici per le dimensioni che potrebbe avere, non resistiamo e ci dirigiamo al famigerato spot per ritrovarci davanti a uno spettacolo della natura. Immaginatevi una spiaggia cristallina, palme lungo tutto la costa, e barche di pescatori arenate sulla spiaggia, e in fondo alla baia, in lontananza, sul reef, gigantesche onde sinistre che si srotolano con incredibile potenza, spruzzando schizzi fuori dal tubo, esattamente come in un video di Pipeline. Rimaniamo a guardare per minuti, a bocca aperta, sapendo che probabilmente non entreremo. Solo Alejandro, il più esperto inizia a pianificare la remata per raggiungere il picco, studia la corrente, ecc.
Non c’è nessuno là fuori, il che non rassicura mai soprattutto se si surfa uno spot nuovo per la prima volta. Ma poi notiamo che tre ragazzi stanno uscendo e camminando sulla spiaggia, tavole sottobraccio. Guardiamo meglio e ci rendiamo conto che sono Will e due suoi amici, un ragazzo australiano che avevamo incontrato nei primi giorni e che Alejandro conosceva da un viaggio passato alle Hawaii. Gli andiamo incontro per avere un feedback e chiede come era. Tutti e tre hanno tavole lunghe, delle Gun retro sui 7-8-9 piedi. Ci dicono che era epico, tubi giganti. Poi ci chiedono che tavole avevamo. Noi non avevamo niente sopra i 6.5. “Forget it, you would not make it…”, le nostre tavole erano troppo piccole per le condizioni. Alejandro inizia a imprecare, mentre io sotto sotto tiro un sospiro di sollievo, non morirò in Indonesia, non oggi almeno.
Nei giorni successivi lo swell torna a essere più gestibile, il che vuol dire Ujung Bocoru lavorava da dio. Per più giorni consecutivi la routine è la stessa, persi in un vortice di sport, cibo, e profonde dormite, nessuna distrazione, solo surf surf surf. Sveglia al mattino, fuori in acqua ancor prima della colazione, surfare fino a mezzogiorno, mangiare come dei leoni, dormire, svegliarsi per le 4 del pomeriggio e surfare fino a che il sole non spariva. C’è un qualcosa di incredibilmente soddisfacente nel surfare ripetutamente la stessa onda, per più giorni consecutivi, specialmente se si tratta di un point o un reef break indonesiano. Dopo un po’ si “impara” l’onda, ci si rende conto quali sezioni sfruttare e in qual modo, dove posizionarsi, dove spingere un po’ di più e dove essere più cauti, dove puoi infilarti sotto il lip per un mini tubo e dove puoi accedere per poi esplodere in cima all’onda. Inizi a migliorare, a surfare meglio, molto meglio del solito, e avere compagni di viaggio che ti spingono oltre la comfort zone e non esitano a farti notare errori e aree di miglioramento è la cosa più vicina ad avere un coach in questi tipi di viaggio.
Dopo 4-5 giorni ci sentivamo più in forma che mai, una persona normale si sentirebbe “surfed-out”, esausta, ma noi eravamo solo più carichi, invincibili, felici, soddisfatti, la stessa sensazione che provi quando raggiungi un traguardo importante della tua vita, come una promozione al lavoro, la ragazza che ti piace da anni diventa la tua fidanzata, un nuovo appartamento più grande. D’altronde per noi essere lì, nella giungla, a passare la maggior parte del nostro tempo a galleggiare sopra il corallo in acqua cristallina e circondati da tartarughe marine era come realizzare un sogno o, meglio, una visione, che avevamo in testa fin da quando ognuno di noi aveva iniziato a surfare da ragazzo. Più di una volta ci ritrovavamo sulla line-up, dopo una lunga remata, ci guardavamo e senza dire una parola sorridevamo e iniziavamo a ridere e cantare le musiche che ascoltavano prima del surf per caricarci. Senza dire nulla sapevamo di essere i ragazzi più fortunati del mondo, e di essere nel posto giusto al momento giusto, che alla fine è tutto quello che è il surf, cogliere il momento, essere là fuori quando c’è da essere là fuori, e godersela finché dura, perché niente dura per sempre, un’onda dura secondi, uno swell giorni, e anche un viaggio finisce dopo qualche mese, settimana, o anche meno.
A rovinare la festa, è stata una tempesta nel cuore della notte. Per un momento pensavamo che l’edificio sarebbe crollato da quanto forte era il rumore del vento e della pioggia. In verità niente di troppo catastrofico e niente fuori dal normale se fossimo nella stagione delle piogge (ma era pieno luglio) secondo Jerry. Unico problema, per i successivi due giorni, le condizioni peggiorarono drasticamente. Il vento girò da offshore a onshore, lo swell cambiò ritmo, e non c’era nessuno spot che lavorasse decentemente. Ci aspettava ancora qualche giorno prima del nostro viaggio di ritorno a Bali e in un posto come Krui o Ujung, se non surfi non c’è veramente niente da fare. All’inizio eravamo un po’ spaventati dal provare noia.
Immaginatevi, avere timore della noia, che assurdità. Ma dopo la prima mattina, iniziammo a vedere il lato positivo. Più tempo per rilassarci e sentirci veramente in vacanza. D’altronde eravamo in Indonesia, ai tropici, circondati da palmeti e spiagge paradisiache. Così iniziammo a perdere tempo. Mangiare e dormire rimasero attività cruciali e fondamentali della giornata, tutto girava intorno al cibo dato che il surf non era più il centro focale. E tra mangiare e dormire prendevamo gli scooter e giravamo per il villaggio, salutavamo i ragazzini locali, andavamo in spiaggia a vedere il tramonto, a fare foto da mandare alle nostre famiglie, a giocare con noci di cocco e bastoni come uomini primitivi, e a volte giravamo semplicemente per i palmeti ammirando il panorama e parlando di qualsiasi cosa ci passasse per la testa, fossero le ragazze che avevamo conosciuto a Bali, il costo delle case in Portogallo, che tavola prendere per surfare Way Jambu o dove saremmo potuti andare per surfare onde addirittura migliori di quelle che già avevamo ottenuto.
Spesso bambini e ragazzini del posto ci seguivano in moto per poi timidamente chiederci se potessero farsi una foto con noi. Eravamo talmente diversi da loro che rappresentavamo un evento. Concedergli quelle foto li rendeva le persone più felici del mondo, se andavano strillando, come una ragazzina che è riuscita a farsi un selfie con Timothy. Eravamo shockati e divertiti, ma allo stesso tempo ci si aprivano gli occhi e ci svegliamo dal nostro surf trip da sogno.
Eravamo in un paese povero, dove non avevano nulla, e noi eravamo i “ricchi” ragazzi dell’ovest venuti a surfare nella loro terra. Essere cordiali e concedere una foto, lasciare una mancia o offrire del cibo era il minimo che potevamo fare, il dovuto minimo.
Dopo due giorni di vento, piogge occasionali, esplorazioni in motorino, e camminate nei palmeti, il desiderio di isolamento, di selvaggio, di onde lentamente veniva rimpiazzato dal desiderio di birre fredde, piscine, pasti occidentali, feste e ragazze. Bali ci stava chiamando, già messaggiavamo con le nostre conoscenze sull’isola degli dèi, già stavamo organizzando cene, eventi, ecc. Già guardavamo il forecast per il main peak di Uluwatu per capire come incastrare le nostre ore lavorative della settimana dopo con le maree migliori e le consecutive cene alla sera. Bali è questo alla fine: surf, clima paradisiaco, “bella” gente, feste, buon cibo, servizi e comfort alle porte della giungla indonesiana e di fronte a una delle onde migliori del mondo, ancora più epica di ujung Boucir nei suoi giorni giusti. Ovviamente se sei disposto a lottare con 50 altri surfisti da tutto il mondo, molti dei quali hanno magari risparmiato una vita per essere lì in quel momento e di conseguenza sono disposti a tutto per prendere l’onda del giorno.
Ma se sei in grado di accettare questi compromessi, allora Bali ti tratterà come un re, e come tanti, non te ne vorrai mai andare. Solo gli swell più potenti, che attivano gli spot più epici dell’arcipelago, fanno abbastanza gola ai surfisti dell’isola per prendere un volo locale e lasciare il comfort per la guest house più rustica nella giungla, pur di avere anche la minima possibilità di prendere quella che molti potrebbero considerare l’onda della loro vita.
Questo è il bello di viaggiare in Indonesia. Puoi avere tutto e fare tutto. Vuoi surfare onde world class, cenare in una pizzeria italiana e fare una spa di lusso al mattino dopo? Indonesia è anche questo. Vuoi dormire in un’amaca per un mese, surfare onde epiche ogni giorno e addormentarti con il rumore delle onde e della giungla? Indonesia è anche questo.
E così finita la nostra ronda nella giungla di Sumatra, iniziavamo il nostro viaggio di ritorno, anche stavolta nella notte. Stanchi, “surfed-out”, soddisfatti, e, ciò nonostante, eccitati e ansiosi di goderci le onde e le feste di Bali il giorno il seguente. “Back to the Vortex…”