Il tappetino di benvenuto fuori dalla porta è stranamente poco accogliente. C’è una familiarità surreale con questo posto, come se fossi stato qui in una dozzina di incubi alla Black Mirror, ma non riesco ancora a ricordare la strada da fare. Dentro è tranquillo. Buio. Silenzioso. Ho attraversato le stagioni – dal caldo torrido alla neve – per arrivare qui e sono inciampato in modo maldestro attraversando l’ingresso. Ho imperversato senza sosta dentro queste mura, finendo le scorte energetiche e ascoltando qualche s…..o che mi diceva “c’è solo un’altra salita” per la decima volta.
Le lettere sbiadite sul tappeto dicono: “Benvenuti nel regno del dolore.”
La respirazione pesante, unita a occasionali borbottii, riempie l’ambiente. Non sembra possibile che io produca questi suoni, ma non c’è nessun altro qui. Non c’è mai stato nessun altro qui. Quando la sofferenza mi fa vacillare più di quanto io credo di poter sopportare, le parole vengono dimenticate. E io conto i secondi che passano.
Questi confini oscuri sono il posto dove vado quando tutto fa male, e c’è molto più male in attesa tra qui dove mi trovo e l’arrivo casa. Può essere una buia caverna dove sono solo una minuscola particella luminosa che cerca di trovare la via d’uscita. Immagino che sia benvenuta per altri, come il biker in tutina che mi urla “a sinistra!” prima di passarmi. Guardando certi ciclisti di età avanzata pedalare con una rapidità che smentisce il loro stato di ultra settantenni, mi chiedo quanto devono essere grandi le grotte di alcune persone.
La mia sofferenza riecheggia tra le pareti della caverna e scuote i miei pensieri. Voglio scappare, arrendermi, fermare tutto e crollare accanto al sentiero fino a quando un elicottero non mi coglie dal bosco e mi lascia cadere su un divano per poter guardare l’ennesima serie TV in streaming.

Si potrebbe pensare che eviteremmo il Regno del dolore a tutti i costi, il nome non sta certo favorendo la sua attività turistica. Ma invece di fuggire da esso, lo cerchiamo, a volte partendo al buio. Ci iscriviamo a eventi che dubitiamo a di finire e facciamo finta di partecipare con piacere a una gara locale che non ci interessa affatto. Superando la nostra soglia di comfort, ci avviamo con nient’altro che una mappa stropicciata fino a quando non conosciamo la strada a memoria.
Ogni respiro diventa un tentativo di calmare la sofferenza. Gli sforzi per ignorare il dolore sono vani, così mi arrendo e mi tuffo in esso fino a quando tutto ciò che esiste al mondo è un paio di gambe urlanti su una salita che non finirà mai.
A metà della gita programmata per il regno del Dolore, mi faccio sempre la stessa domanda: “Seriamente, sono stupido o cosa?”
Al momento non riesco a trovare una buona ragione per farmi questo. Quindi inizio a contare. Conto per dimostrare che il tempo passa. Conto per ricordare a me stesso che anche questo passerà, e che quando lo farà, godrò di una visione più chiara del mondo e delle cose che valgono realmente nella vita.