Che tu sia atleta vero, allenato e preparato, magari con un glorioso passato da professionista, oppure un semplice ciclista della Domenica, L’Ötztaler è come un sogno e sotto il profilo atletico la subisci a prescindere. Forse nasce anche da qui il suo essere così ambita, perché ti porta oltre il tuo limite conosciuto. E poi ci sono i suoi numeri, il suo chilometraggio e il dislivello positivo, che sono come una porta d’ingresso al girone infernale. Eppure questa granfondo è il sogno del popolo dei granfondisti, da qui il suo claim, Ich habe einen traum, che tradotto è “io ho un sogno”. Vogliamo dare spazio al racconto dell’amico Massimiliano Muraro, appassionato di bicicletta con la A maiuscola.
Ich habe einen traum, la sintesi è Ötztaler
Chiunque vada in bicicletta, anche se digiuno di tedesco, conosce bene il significato di questa frase: Ich habe einen traum (io ho un sogno). Quattro parole che rappresentano il mantra per tutti i ciclisti che ogni anno si danno appuntamento a Sölden, all’ultima Domenica di Agosto. È da questa rinomata località di villeggiatura del Tirolo austriaco che parte e arriva il sogno, quello di completare i 238 km e i 5.500 metri di dislivello dell’Ötztaler Radmarathon, considerata all’unanimità la granfondo più dura.
La gara che ti cambia, nella testa e nel fisico
Chi l’ha già fatta, chi dunque ha visto realizzarsi quel famoso sogno, mi ha detto: «Vedrai, è una gara che ti cambia». A giochi fatti non posso che dargli ragione. L’Ötztaler è molto più che una corsa in bicicletta, è un’esperienza ascetica che mette a nudo limiti e speranze dei suoi partecipanti. Ognuno è solo con sé stesso, l’unica compagnia che ha è quella del suo mezzo che però per andare avanti ha bisogno di essere spronato di continuo dalla volontà e, molto più prosaicamente, dalle gambe del suo conducente. Forse è anche questo il significato della frase Ich habe einen traum.
Si è vero, io non sono l’amatore ingarellato e il pummarola-pro della situazione. Dei miei watt non ne faccio una questione di vita. Conduco una vita normale, vado in bici quando posso e cerco di godermi le mie giornate anche oltre le due ruote a pedali. A Sölden però, non ci si nasconde, sarebbe da incoscienti farlo. In questa granfondo, quando si taglia la linea del traguardo, che a un certo punto non sembra arrivare più, si arriva mutati, quasi come se il corpo e la mente abbiano subito una metamorfosi tanto sorprendente quanto inimmaginabile. Quella che per molti può suonare come retorica, diventa consapevolezza tangibile di aver compiuto un gesto che resterà per sempre nel bagaglio personale di ognuno dei finisher.
2021, la ricorderemo come una delle edizioni più dure
Questa edizione, la quarantesima, aveva i contorni della leggenda sin dal principio perché, dati alla mano, è stata davvero la più dura di sempre. E non parliamo soltanto del maltempo che ha risparmiato i suoi fedeli per 190 km, salvo poi fargliela pagare con gli interessi in prossimità del Rombo. Ci riferiamo anche alla variazione di percorso che non ha tolto dislivello, ma ne ha aggiunto. Ich habe einen traum, forse la parola traum, suona meglio con l’incedere italiano, così come si legge! Altroché sogno, un trauma………..
Una difficoltà aggiuntiva, per organizzatori e partecipanti
Aggirare l’ostacolo ed aumentare i km, una scelta necessaria dato che una frana ha costretto le autorità a chiudere il passo Küthai, la prima asperità di giornata. A quel punto le alternative erano due: tirare dritti fino a Innsbruck oppure inventarsi qualcos’altro. Siccome nel primo caso si perdeva molto del fascino della granfondo, la decisione era inequivocabile e obbligata. Così dopo la partenza anticipata alle 6.30 a 4 gradi e la consueta discesa di 30 km, a Ötz, invece di svoltare a destra il gruppo ha proseguito fino a Heiming da dove cominciava la salita che poi si ricongiungeva al percorso originale. Chi l’aveva provata parlava di un piccolo Mortirolo, notizia che ha spaventato sia me, sia i miei compagni di avventura.
Molto più che un semplice orpello
L’Heimin attacca subito duro per fare capire a chi lo sfida di che pasta è fatto. Non molla mai e raramente scende sotto la doppia cifra. Alla fine saranno 9.7 km al 10.2% di media. Allo scollinamento si respira per qualche minuto, ma poi la strada si immette nel tracciato originale che conduce ai 2.000 metri del Küthai. Primo ristoro molto affollato, al quale si può accedere solo col braccialetto che ogni partecipante deve obbligatoriamente indossare. Per fortuna riempire le borracce non porta via troppo tempo.
L’avete mai fatto il Küthai? Una fucilata dritta in valle
Comincia la picchiata verso Innsbruck. Lì, la bicicletta raggiunge velocità vertiginose, l’asfalto è quasi perfetto, salvo alcuni tratti dove è in via di rifacimento. Gli unici nemici da tenere in considerazione sono le griglie per lo scolo dei liquami degli animali da pascolo. Sì perché i veri padroni di casa a quelle altezze sono le mucche, costante che ci accompagnerà fino dopo il Rombo. Comunque in un amen eccoci a Innsbruck.
Il Brennero sembra un cavalcavia
La curva che conduce alla strada per il Brennero ricorda tanto quella dei tifosi sull’Alpe d’Huez: gli unici rumori che si sentono sono quelli dei campanacci e degli applausi. Assicuro che valgono più di qualsiasi barretta o gel. Il Brennero è un lungo falsopiano, se si trova il treno giusto si è a cavallo. Altro ristoro che, come aveva previsto il mio amico Giacomo, pare di essere alla Festa dell’Unità tanta è la gente che lo prende d’assedio.
Il Passo del Giovo, una parvenza di sole
Si sconfina in territorio italiano, Ich habe einen traum…… A Vipiteno il cielo pare aprirsi e la temperatura sale in men che non si dica. Tutti si fermano per alleggerirsi di guanti, manicotti, gambali e mantelline. Parte il Giovo, ascesa lunga 15 km costante, che se uno la prende del suo passo non ha problemi ad arrivare in vetta, sebbene le energie non siano più quelle di poche ore fa. Il cartello che indica i 2.090 metri è manna dal cielo. Anche questa è andata.
E poi c’é sua maestà che ci attende, il Passo Rombo, Timmelsjoch
Affrontiamo la discesa in silenzio, pinziamo i freni un po’ troppe volte, ma sappiamo il perché. Vogliamo farla durare un po’ di più perché sappiamo cosa ci attenderà tra qualche km. San Leonardo in Passiria, anche qui la gente a bordo strada non ci fa mancare il suo affetto: non c’è tempo per tirare il fiato. Guardo il mio Garmin, segna 185 km già percorsi e 3.500 di dislivello. Già, ma a San Leonardo attacca subito il gigante che con la sua mazza in mano è alla costante caccia dei poveri ciclisti che hanno osato affrontarlo. È il Passo Rombo, quasi 30 km e 1.800 metri tutti all’insù.
Per rispondere alla domanda su cosa spinga ogni anno 4.000 ciclisti sulle strade dell’Ötztaler servirebbe un libro di antropologia, uno di sociologia e uno di psicologia. Il capitolo conclusivo di tutti avrebbe lo stesso titolo: il Rombo. A isolarla dal contesto non è una salita impossibile. Lunga sì, ma impossibile no. Però provate voi a farla con tutti quei km e quelle tossine nelle gambe, con in più l’aggravante di arrivarci prima che il cancello orario ti dica che sei fuori gara senza prova d’appello. Ich habe einen traum, ho un sogno e un obiettivo, prima di tutto quello di portare a termine questa sfida.
I carro scopa? Dei pullman
Noi nei tempi ci siamo rientrati senza problemi, ma per altri non è così. Anzi, vediamo i pullman del carro scopa carichi di colleghi e di biciclette che mestamente si dirigono verso Sölden. Scommetto che molti di loro staranno piangendo. Comunque sia, testa bassa e ognuno col ritmo che meglio gli aggrada, si comincia a salire (di nuovo). Le energie sono ormai al lumicino, basta che la strada vada al 7% ed è come se andasse al 10%. A Schonau ci fermiamo per un’ultima sosta, più che altro perché l’acqua è finita.
La neve…… La firma sull’opera
Proprio lì abbiamo un assaggio di quanto ci aspetterà. L’acqua che scende copiosa fino ai 2.000 metri è da considerarsi anche piacevole tutto sommato. Siamo vestiti bene e praticamente asciutti. Il discorso cambia quando mancano 5 km allo scollinamento. L’acqua si trasforma in neve ghiacciata e ogni colpo di pedale è una tortura. Entriamo in un altra dimensione che ci accoglie al primo tornante con le maglie delle edizioni precedenti appese a un filo e tutte sbrindellate. Sono maestose nel loro garrire al vento come bandiere di vittoria, ma a me in quel frangente ricordano anche un cimitero di guerra. C’è silenzio, c’è rispetto e c’è paura.
Il paradiso prende le sembianze di un tunnel
Le gambe vanno avanti a mulinare solo per forza d’inerzia. Ogni tanto do un’occhiata al Garmin per vedere quanto manca, quand’ecco che mi si para davanti il tunnel più desiderato e solenne. Le due porte all’entrata sono ancora aperte. È lungo poco più di 400 metri, illuminato quel tanto che basta. Una volta varcata la sua soglia si sentono le urla di gioia dei ciclisti.
Diciamo che una volta passato il più è fatto. Certo, ma non quest’anno, non oggi.
All’uscita la tempesta non ha mollato un secondo, anzi è aumentata. Le nuvole basse non permettono di avere punti di riferimento. C’è solo il mio ansimare e l’asfalto sotto la mia ruota, ma riconosco la fine dell’agonia. Commetto però l’errore di non mettermi gli occhiali così il primo tratto della discesa è intuizione pura. Tremo come una foglia, non vedo nulla per via delle stilettate di ghiaccio sul volto e per la nebbia. Ho paura di finire fuori strada anche perché la prima parte è molto molto ripida.
A venirmi in aiuto è l’ultimo muro che se in passato era temuto perché annunciava crampi e dolori, adesso diventa una benedizione. I due km al 10% del Maustelle (la Dogana) mi permettono di ritornare a quello sforzo che almeno per qualche minuto mi riscalda. Anche qui non si vede nulla: le luci a intermittenza dei ciclisti davanti a me, il guardrail e pure l’immancabile mucca che si piazza di traverso sulla strada. Sotto alla dogana sono intirizzito, provo a cambiarmi i guanti mettendomene un paio di asciutti. Un signore austriaco mi si avvicina e mi offre ogni tipo di conforto, comprese delle sonore pacche per scaldarmi il corpo. Prima di ripartire mi consiglia di pedalare. Lo intuisco dal gesto che mima, mica da cosa dice. Mi parla in tedesco, ma io in quel frangente a malapena ricordo come mi chiamo. Seguo il suo consiglio e dopo essermi imbattuto in Giacomo, preoccupato dal mio tremore, ricomincio a pedalare.
E’ quasi fatta, il mio “traum” è li ad un passo. Anzi ci siamo….
Il Garmin ora segna 226 km, ne mancano 12 per arrivare a Sölden. Infiniti. Si perde quota e anche il freddo diminuisce. Quando imbocco il viale finale cessa del tutto, almeno per un po’. La gente non finisce più di applaudire e di fare baccano. L’ultima fatica è girare la bicicletta a destra, superare il ponticello e tagliare finalmente con le lacrime agli occhi il traguardo, la linea di separazione tra guerra e quiete a cui avevo pensato tutto il giorno.
Scendo dalla sella, vado a prendere una bevanda calda e senza neppure accorgermene vengo avvolto da una coperta termica, di quelle che avevo visto tante volte in televisione, ma che non avevo mai provato. La mia Ötztaler è finita. Cioè è quasi finita perché manca ancora qualcosa, ma quello può aspettare il mattino dopo. È la maglia da finisher che mi dà la sicurezza di aver domato i 238 km e i 5.500 metri di dislivello della maratona ciclistica più dura d’Europa. Ich habe einen traum, ora si!
Adrenalina pura
Con Giacomo nel viaggio di ritorno parliamo solo di quello e lo stesso succede nei messaggi che ci scambiamo sullo smartphone. Proprio ieri gli ho scritto: «Non so tu, ma io ho ancora tutta l’adrenalina in circolo». La sua risposta è la sintesi perfetta di quanto abbiamo provato: «È una gara a rilascio emotivo prolungato. È come se avessimo assunto una sostanza i cui effetti anche fisici durano giorni, forse settimane». Secondo me dureranno anche di più. Insomma, ho realizzato il mio sogno.
grazie a Massimiliano Muraro, a cura della redazione tecnica. Immagini Sportograf e Ötztaler.