L’industria della mountain bike è spesso criticata, non sempre a ragione. Ecco l’elenco delle cose che davvero non vorremmo vedere fare dalle aziende di mountain bike, in rigoroso ordine sparso.
Collezione annuale
Nel momento in cui è stato introdotto un buon prodotto, con mesi se non anni di ricerca e sviluppo alle spalle, perché aggiornarlo ogni anno? Una delle risposte plausibili è che i cosiddetti Model Year (MY20 per quest’anno, nda) rispondono alla necessità di obsolescenza programmata: le bici e/o i componenti dell’anno precedente diventano improvvisamente vecchi con una grande convenienza nel mercato dell’usato. Un po’ quello che accade in molti rami dell’industria, compresa quella della telefonia cellulare: ci sono dispositivi della collezione 2018 che reggono il confronto con quelli attuali, pur essendo disponibili su eBay – ad esempio – a una frazione del prezzo iniziale. Perché cambiarlo allora? Semplice, per la malsana idea che, pur girando con una MTB assolutamente decente – per tornare al nostro caro sport preferito – ci sentiamo inadeguati non avendo il modello più recente.
La collezione annuale ricorda tanto l’industria automobilistica di qualche decennio fa, eh sì, perché anche in questo mondo le cose sono cambiate e non poco, con aggiornamenti discontinui della gamma a listino. È verissimo, le cose nuove risplendono di luce propria e catturano il nostro sguardo oltre al nostro cuore, facendoci entrare in una mortale spirale di consumismo. E se fosse invece la ragione a prevalere per una buona volta sul cuore?
Sospensioni inadeguate e non solo
Spulciando tra i listini dei vari brand, non è raro trovare allestimenti anche costosi con sospensioni e trasmissioni di livello entry level, un vero sacrilegio! Lo stesso vale per montaggi di alta gamma e di ingresso sul mercato, con molti (troppi) compromessi per alcuni componenti chiave che hanno importanti ricadute sulle performance, sul comfort, sulla sicurezza e in generale sulla qualità della guida. È un vero peccato, perché basterebbe veramente poco per non snaturare l’anima di un mezzo. A questo punto torna d’attualità la domandona: meglio un telaio in carbonio con allestimento sacrificato o uno in alluminio ma più curato nel montaggio?
Lo voglio rigido!
L’industria ciclistica è alla spasmodica ricerca della rigidità. Da un certo punto di vista, sembra quasi che la rigidità del telaio o di una parte come la forcella sia lì per colmare le lacune del biker. Il biker che è l’elemento più importante dell’insieme formato da sé e dalla propria mountain bike: ogni singolo impatto ricevuto da un ostacolo del terreno – roccia, radice, ecc – viene trasmesso se non amplificato da un insieme rigido oltre misura ma soprattutto l’umana sopportazione.
Tutto ruota intorno all’idea che bici più rigide regalino una sterzata e di conseguenza una guida più precisa, una pedalata più efficace, e in generale performance più elevate. Ma a tutto c’è un limite, è il nostro corpo che ce lo ricorda, perché una bici più rigida è anche più fisica da guidare. Siamo tutti pro super allenati e dotati di skill tecnici di livello Red Bull Rampage, alla ricerca della massima performance sempre o comunque? O è più facile che siamo appassionati e amatori che mettono il divertimento sopra tutto nel limitato tempo che hanno a disposizione per praticare il loro sport preferito?
Spesso e volentieri la verità sta nel mezzo, quindi va bene la rigidità, in particolare in elementi come gli assi della sospensione posteriore e i perni ruote, che hanno un evidente vantaggio in termini di solidità della struttura e sicurezza sui trail. Un po’ meno lasciarsi incantare dalle sirene dei cockpit da 35 mm, le scatole oversize del movimento centrale, gli steli maggiorati della forcella quando non sussiste una vera necessità.
Emulazione
Tecnica a parte, abbiamo un bisogno viscerale di emulare i nostri beniamini, di copiare le loro gesta e di comportarci come loro. Ci dicono che le loro bici sono quelle che noi troviamo sul web, appena oltre la vetrina del negozio e di fronte a noi a un’esposizione. Vogliamo gli stessi rapporti, la medesima taratura della forcella e angoli di sterzo e piantone. Vogliamo vivere come in una World Cup e solo quando ci siamo dentro ci accorgiamo che il mozzo della ruota davanti appena sotto la linea del mento, forse non fa al caso nostro! Che un ammo stile sciabola non è adatto alla nostra guida! Forse iniziamo a capire che una taglia in meno della bici, rispetto a quella che calzerebbe ad hoc, non è cosa per i comuni mortali.
Tante – troppe – sigle
Torniamo all’influenza nefasta di quei geni del marketing. L’industria della mountain bike ama le sigle e gli acronimi. C’è bisogno di inventarsi nuove piattaforme tecnologiche dal nulla, giusto facendo minime modifiche a quanto già presente sul mercato da anni, dandogli un nome e una sigla altisonanti? Ci piacerebbe vedere maggiore attenzione nelle saldature di un telaio in alluminio e nella lavorazione di uno in carbonio, così come nelle verniciature, con grafiche essenziali in cui marchio e modello bastano e avanzano.
Quanti standard
Tra sterzo, movimento centrale, e ruote è facile perdersi nella giungla degli standard… e delle sigle! Sembra quasi che molti brand giochino a chi ce l’ha più lungo, più grosso, più rigido, ecc… applicando minime modifiche a standard già diffusi ma che hanno l’unica pecca di essere spinti da un concorrente. Ma davvero si può giustificare la strategia di rompere le uova nel paniere anche e soprattutto a chi di mestiere mette le mani sulle mountain bike ogni santo giorno per lavoro? Pensiamo a ogni negoziante e meccanico, che impazzisce letteralmente tra parti da tenere in magazzino, e procedure di manutenzione da imparare con attrezzi specifici. Non abbiamo finito: pensiamo anche ai piccoli brand, non di rado fucina di idee e soluzioni tecniche con un’ingegneria capace e vera. Piccole aziende e marchi poi inglobate e accorpate dai colossi, per capacità ma anche per necessità di sopravvivere.